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Iside e Osiride
Per i Greci, l'Egitto fu sempre il luogo del meraviglioso e della sapienza. Inguaribilmente «giovani», guardavano quella terra come l'antichità stessa. Dopo secoli di questa fascinazione, testimoniata in Erodoto come in Platone e Pitagora, un sacerdote di Delfi, Plutarco, dedicò il suo Iside e Osiride a Clea, anch'essa sacerdotessa a Delfi, nel tempio di Iside. È questa senza dubbio la più importante fonte greca sulla religione egizia. La sua intenzione è innanzitutto di mostrare che cosa è e come si interpreta un mito. E a tutt'oggi è difficile pensare un testo che al mito meglio sappia introdurre. Inoltre, Plutarco vuole indicarci la concordanza fra la dottrina sacra che si cela nelle vicende di Iside e Osiride e quella che Platone aveva insegnato, nonché la concordanza di significati fra dèi greci ed egizi. Era appunto questo l'omaggio alla sacerdotessa di Iside: «Il fatto che Osiride si identifichi con Dioniso chi meglio di te lo può sapere, Clea?». Con andamento rapsodico e ampie digressioni, ricche di preziosi dettagli, Plutarco delinea il tortuoso percorso di un mito che continuerà sempre a offrirci i suoi enigmi, come annunciavano le parole incise sulla statua di Iside a Sais:...
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Lettera a mia madre
Dopo anni di assenza, Georges Simenon torna a Liegi per assistere agli ultimi giorni della madre novantenne. Nella stanza dell'ospedale due occhi di un grigio slavato lo fissano: «Perché sei venuto, Georges?». E qui comincia un ultimo duello, silenzioso e immobile, fra madre e figlio. Per quasi cinquant'anni si sono visti poco. Ma un filo resistentissimo lega quella donna minuta, che ha vissuto sempre dello «stretto necessario» nel suo angolo del Belgio, e quello scrittore celebre in ogni parte del mondo, ricchissimo, il caso più stupefacente di fecondità nell'invenzione romanzesca. I loro rapporti non sono mai stati facili, nessuno dei due è abituato all'espansività dei sentimenti. «Ed ecco che ora, dopo tanti anni, vecchi tutti e due, ci ritroviamo faccia a faccia in quest'ospedale, con questi personaggi di cera intorno a noi». Eppure, solo ora Simenon ha l'impressione di capire sua madre, e insieme di non sapere quasi nulla di lei. C'è un fondo comune in questi due esseri: la madre, testardamente, ha «sempre voluto appartenere al mondo della piccola gente»; il figlio si è nutrito di quel mondo in ogni nervo per evocare, con sonnambolica sicurezza, centinaia di personaggi. E solo ora,...
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Carteggio Cecchi-Praz
Nel marzo 1921 Emilio Cecchi, già autore di alcuni dei suoi saggi più importanti, ricevette da un giovane fiorentino, Mario Praz, alcune prove di traduzione da poeti inglesi. Così cominciava unamicizia letteraria che sarebbe durata più di quarantanni ed è testimoniata in questo Carteggio, prezioso non solo per lidentità degli scriventi, ma per la natura del loro rapporto: unaffinità non disgiunta da una nascosta tensione, una reciproca stima talvolta delusa, un alternarsi di slanci (da parte del «discepolo» Praz) e improvvise unghiate (da parte del recalcitrante «maestro» Cecchi). E, mentre Cecchi è fin dallinizio in posizione di magistrale difesa, Praz ci sorprende per labbandono con cui si effonde, soprattutto nei primi anni, in racconti della propria vita, anche sentimentale, usando tratti vivissimi e toccanti. Sarà difficile dimenticare quellInghilterra malinconica e sonnacchiosa, raccontata da un solitario passeggiatore, che qui ci appare in vari squarci. In queste lettere di Praz, come scrive Giovanni Macchia nellintroduzione, «comincia lentamente a realizzarsi il senso di una vocazione letteraria che per labbondanza dei risultati, per la vastità della ricerca e quasi limmensità dellesplorazione, avrebbe avuto qualcosa di prodigioso». Di fatto, da queste lettere appare con una certa crudezza come...
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Quaderni. Vol. 2
Questo volume contiene i quaderni quinto, sesto, settimo, scritti a Marsiglia dal novembre 1941 all'inizio del 1942. Periodo dunque brevissimo, dove tanto più prodigiosa appare la concentrazione e l'intensità del pensiero di Simone Weil. Qui si direbbe che venga trasposta in regola di vita metafisica quella abitudine che è tipica degli allievi della École Normale (come Simone stessa era stata): studiare pochi testi, ma tentando di derivarne le conseguenze più ramificate, più vaste e più decisive. E proprio in questi mesi vengono a giustapporsi, per la Weil, a quelli greci antichi alcuni testi della tradizione indù, che prendono posto fra quelli per lei essenziali: innanzitutto la Bhagavad Gīta e le Upaniṣad, che ella cominciava allora a leggere nell'originale, dopo essere stata iniziata allo studio del sanscrito da René Daumal agli inizi del 1941. Tra i Vangeli, la Gitā e i greci antichi si viene così a creare una triangolazione abbagliante. Al di là di essa, percepiamo un azzardo peculiare di Simone Weil: tentare di fissare una fisica del soprannaturale, che trasponga le nozioni di leva, forza, limite, equilibrio, gravità, livello, ecc., in un altro ambito, quello di cui meno sappiamo e da cui...
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Ombre sull'erba
Nel 1931 la Blixen abbandonò definitivamente la sua Africa, ma per lei «la Croce del Sud brillò ancora per un poco dopo la sua scomparsa, come una traccia luminosa nel cielo, poi impallidì e si spense». I paesaggi, gli animali, gli esseri umani che avevano colmato quellesistenza di angosce e felicità acquistarono laspetto delle figure che ci appaiono nei sogni. Eppure la Blixen sapeva che «lUnità creativa» della sua stessa persona era costituita dalla tensione fra quellAfrica, immagine di una primigenia, selvatica nobiltà, e il suo Nord, gotico e metafisico. Così per anni la sua memoria continuò a volgersi verso uninvisibile Croce del Sud, e a poco a poco si sarebbero depositate le pagine di questo piccolo libro, ricco di storie e di memorabili ritratti, primo fra tutti quello del servitore Farah, qui presentato come «il gentiluomo più perfetto». Intorno a lui, molti altri profili si disegnano, «ombre misteriose, altere e vigili». E ancora una volta avvertiamo la profonda affinità fra la Blixen e questi esseri, come lei «innamorati del pericolo, della morte, e di Dio». Pubblicato nel 1961, un anno prima della morte della Blixen, Ombre sullerba è un ultimo gesto di...
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Cervelli
«In pace e in guerra, al fronte o nelle retrovie, da ufficiale come da medico, fra trafficanti ed eccellenze, davanti alle celle dei manicomi e a quelle delle prigioni, accanto ai letti e alle bare, nell'ora del trionfo e in quella della caduta, non mi ha mai abbandonato la trance che questa realtà non esista. Misi in moto una sorta di concentrazione interna, smossi sfere segrete, e sprofondò l'individuale, e salì alla superficie uno strato primigenio, ebbro, ricco di immagini e panico. Periodicamente rafforzato, l'anno 1915-16 a Bruxelles fu inaudito, nacque Rönne, il medico, il flagellante delle cose singole, il nudo vuoto dei contenuti, che non poteva sopportare alcuna realtà, e neppure afferrarla, che conosceva soltanto il ritmico aprirsi e chiudersi dell'io e della personalità, la incessante discontinuità dell'essere interiore, e che, di fronte alla esperienza della profonda illimitata antichissima mitica estraneità tra l'uomo e il mondo, credeva incondizionatamente ai miti e alle loro immagini». Con queste parole brucianti Gottfried Benn raccontò una volta la nascita di Cervelli, il libro che raccoglie le storie del dottor Rönne e apparve nel 1916. A distanza di settant'anni, quell'inaudito che irruppe allora nella prosa non ha...
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Vita di poeta
Quando Vita di poeta fu pubblicato, nell'autunno del 1917, Hermann Hesse lo recensì subito. Nel suo articolo si leggevano le seguenti parole: «Questo Robert Walser, a cui già dobbiamo tanta bella musica da camera, suona in questo nuovo libretto in modo ancora più puro, ancora più dolce, ancora più alato che nei precedenti. Se scrittori come Walser appartenessero agli “spiriti guida”, non ci sarebbe più guerra. Se Walser avesse centomila lettori, il mondo sarebbe migliore».Appare e scompare in questo libro, sotto sempre nuove spoglie, il personaggio di un giovane vagabondo, che ama le lunghe camminate e guarda il mondo con stupore. Talvolta dorme sulle panchine o in misere locande. Talvolta osa mettere piede, con la sua innocente insolenza, in locali di lusso. Talvolta si rivolge, con devota galanteria, ad affascinanti figure femminili. Gli capita anche che le mutevoli autorità del mondo, quali un capocameriere o un poliziotto, lo sottopongano a severe reprimende. E ogni volta il giovane vagabondo risponderà con amabile eloquenza. Non c'è nulla di più allarmante, in Walser, di queste insistenze sulle maniere soavi, e perfino vezzose: è lì che sentiamo la prossimità della follia. Un immenso disordine è a portata...
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Fato antico e fato moderno
Negli anni in cui elaborava la sua opera capitale, Il mulino di Amleto, Giorgio de Santillana pubblicò alcuni saggi che miravano a introdurci a quella nuova visione, così sconcertante, di tutto il mondo arcaico. E innanzitutto si soffermò sull'idea posta all'origine di ogni altra nella imponente concezione del cosmo che ci appare già formata al nascere della scrittura: l'idea di fato. Questa necessità scandita nel tempo, che tocca tutte le figure «sul “teatro del mondo ammascherate”, come direbbe Campanella», ed è segnata dal moto degli astri, si lascia riconoscere nei più svariati documenti: «nel paesaggio coltivato, nelle immagini, nel mito, nella tradizione molte volte dispersa e frammentata ma in cui si ravvisano, come i pezzi di un puzzle, ingegnose costruzioni narrative che si erano venute diffondendo e che, ricomposte almeno in parte, si rivelano essere il primo linguaggio scientifico». Ma la perfetta «incastellatura di corrispondenze», per cui numeri e immagini si dispongono nei punti nodali di un cosmo dove «tutto è come deve essere, se è», lascia intravedere un dramma iniziale, «un grande conflitto dei primi tempi, in cui venne dissestata la fabbrica dell'universo». Capire il mito o la scienza arcaica, avvinti -...
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La fine di Chéri
«Quando una donna matura ha una relazione con un ragazzo giovanissimo lei rischia meno di lui. In tutte le storie che lui avrà in seguito, sarà marchiato da quella esperienza e non riuscirà a cancellare il ricordo di quella sua prima amante» (Colette in un'intervista). La dimostrazione di questo teorema ci è offerta dalla Fine di Chéri (1926), seguito duro e amaro di Chéri. La scena si apre nel momento stesso in cui il primo romanzo si chiudeva: «Chéri si richiuse alle spalle il cancello del piccolo giardino e aspirò l'aria della notte: “Come si sta bene...”. Ma si riprese subito: “No, non si sta bene”. Gli ippocastani accalcati gravavano sulla calura prigioniera». Con sconcerto, e una sottile rabbia, Chéri dovrà riconoscere che anche nella vita lui non sta poi così bene. Giunto all'acme della sua esistenza di 'bello' dinanzi a cui le donne, giovani o mature, si inchinano, Chéri percepisce una vaga inquietudine: «Non distingueva i punti precisi in cui il tempo, con tocchi impercettibili, segna su un bel viso l'ora della perfezione e poi quella di una bellezza più evidente, che annuncia già la maestà di un declino». E quel declino...
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La mia Europa
L'idea di questo libro è nata nel solaio di una casa sulle rive del lago di Ginevra. Camminando su tavole di legno scricchiolanti o su pavimenti di mattonelle rosse un po' consunte, davanti a vecchi cassettoni dipinti, Miłosz sentì che qualcosa gli stava parlando dal suo passato. Ma subito si accorse di essere muto. «Il profumo di quel solaio mi era familiare, lo stesso dei nascondigli della mia infanzia, ma il paese dal quale provenivo era distante e, simile a un diavoletto che scatta dalla scatola, io mi muovevo secondo le leggi di un meccanismo impenetrabile per i miei amici ginevrini». Che cosa di preciso poteva significare la parola Lituania per i suoi ospiti? E che cosa sapevano in quella Europa idilliaca di quell'altra Europa, dove Miłosz aveva trascorso decenni di una vita segnata da una successione di orrori dinanzi ai quali «la parola non può non essere perdente»? Così Miłosz pensò a un libro che lo obbligasse a svelare almeno una parte di quell'«amaro sapere incomunicabile agli occidentali» che si era accumulato in lui; un libro che non fosse soltanto di memorie personali, ma geografiche: il fantasma possente di certe terre che...
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Il soffio vivo. I procedimenti del «Nutrire il principio vitale» nella religione taoista antica
Eccentrici anche in questo, i Taoisti della Cina antica non miravano soltanto a una modesta immortalità dell'anima, ma intendevano la salvezza come Vita Eterna, in quanto «immortalità materiale del corpo stesso». Tanti, infatti, erano per loro gli spiriti, le anime e i soffi, che soltanto l'unità del corpo permetteva di farli convivere senza troppa confusione. Ma, per giungere a tale risultato, occorre un lungo lavoro alchemico, durante il quale «il corpo immortale si costruisce misteriosamente all'interno del corpo mortale». Le ossa diventano oro e la carne giada: «tra vita mortale e vita immortale non esiste frattura, ma un impercettibile passaggio dall'una all'altra». Questa fisiologia mistica è una delle parti più affascinanti e segrete del Taoismo - e si può dire che Maspero sia stato il primo studioso occidentale a far breccia, con questo saggio del 1937, negli arcani Campi di Cinabro (come veniva definito, in cifra, il corpo umano). Usando un linguaggio mirabilmente immaginoso, i sapienti taoisti erano arrivati a una conoscenza sottile delle forze vitali che ci lascia sbalorditi. Il reciproco sopraffarsi, paralizzarsi o rinvigorirsi dello yin e dello yang, del principio femminile e di quello maschile, è osservato con acutezza tale...
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Quaderni. Vol. 1: Quaderni-Ego-Ego scriptor-Gladiator.
Per cinquantun anni, quasi ogni giorno, fra le quattro e le sette-otto del mattino, Paul Valéry scrisse i suoi Quaderni: ne rimangono duecentosessantuno, in totale circa ventisettemila pagine. Quando chi li scriveva avvertiva un qualche movimento nella casa, smetteva. Diventava un altro, diventava Paul Valéry, l'illustre poeta e saggista. Si era guadagnato il «diritto di essere stupido fino alla sera». Ma che cos'era prima? Una pura attività mentale che scrive se stessa. All'origine di Valéry c'è una folgorazione: la scoperta dell'«impero nascosto» della nostra mente. Prima di diventare parole e significati, tutto ciò che ci succede è un evento mentale. Valéry volle essere uno «strumento d'osservazione» di questa scena mentale, uno strumento del quale si imponeva di «aumentare la precisione». A tale folgorazione, in sé perfettamente neutra, Valéry tenne fede per tutta la vita, come fosse stata una illuminazione religiosa. Più che di poesia o di filosofia o di scienza, era interessato a fare la sua mente. «Gli altri fanno libri, io faccio la mia mente». Dalla specola dei Quaderni, poesia o filosofia o scienza non sono che punti di applicazione di quella «cultura psichica senza oggetto» dove chi pensa non ha neppure...
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Schopenhauer come educatore
Questa terza «Considerazione inattuale», scritta e pubblicata nel 1874, è un'altra sfida che il giovane Nietzsche volle lanciare alla cultura moderna. Al centro, questa volta, è Schopenhauer. Ma Nietzsche non vuole qui addentrarsi nel suo pensiero, bensì prendere la sua figura come emblema del «grande uomo», del genio, categoria che l'Ottocento aveva esaltato e ora si apprestava a sgretolare. Di fronte al diffondersi di una certa generale pavidità, di fronte alla incapacità dell'individuo di sostenere se stesso come unicum, di fronte all'appiattirsi della cultura in servile obbedienza allo Stato, Nietzsche ha voluto ricostruire una fisionomia, quella di «Schopenhauer come educatore», incompatibile con quei caratteri che vedeva affermarsi sempre più intorno a lui. La grandezza, per Nietzsche, non può essere disgiunta dalla familiarità con i mostri e con il fondo feroce dell'esistenza. Eppure, solo chi è avvezzo ad attraversare l'oscuro riesce a emanare un senso perdurante di serenità: «Il vero pensatore rasserena e allieta sempre, sia che egli esprima la sua serietà o il suo scherzo, la sua penetrazione umana o la sua indulgenza divina; senza atteggiamenti tetri, mani tremolanti, occhi acquosi, ma sicuramente e semplicemente, con coraggio e vigore, forse con un certo...
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Le finestre di fronte
Siamo a Batum, sul Mar Nero, nei primi anni di Stalin. Adil bey è il nuovo console turco. Comincia a guardarsi intorno. Entra nel suo ufficio, «sporco di quella sporcizia lugubre che si ritrova nelle caserme e in certi uffici pubblici». Dà unocchiata fuori e vede due persone affacciate alla finestra di fronte. «Prendevano il fresco, nelloscurità, in silenzio». Più tardi vedrà il punto rosso di una sigaretta nel buio di quella finestra. Adil bey avverte subito un invincibile disagio, in quella città desolante, dove tutto lo respinge, dove ogni significato è dubbio e sfuggente. E si sente preso in una rete: sguardi, mezze parole, contrattempi, scene intraviste. Capisce di essere un insetto condannato a contemplare la ragnatela che lo imprigiona. Continua a guardare le finestre di fronte, con maggiore curiosità di quella che mostrano gli altri a osservare lui. Spia le spie, e intanto anche il suo corpo sembra intaccato, una cupa rabbia si unisce alla paura. E langoscia si espande, nulla può arrestarla. Su questa scena si consuma una storia di amore, inganno e morte. Pubblicato nel 1933, quando la natura della Russia di Stalin era ancora ignota allesterno, e nessuno...
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Il problema di Aladino
Un giovane prussiano fin de race, ancora mosso da qualche residuo impulso aristocratico-militare, cresce nell'esercito della Polonia comunista. E un giorno passa all'Occidente. Non si aspetta né «più libertà», né un mondo a lui affine. Sa di essere solo: è un «anarca», uno spirito stirneriano mimetizzato nel regno della macchina. E proprio qui trova l'impresa adatta a lui: una multinazionale delle pompe funebri, che gestisce la morte come un problema industriale su vasta scala. Con freddezza e praticità, si dedica al progetto di uno sterminato cimitero centrale del pianeta, da situare in Turchia. Là, in cunicoli senza fine, nascerà un immane club dei morti, che affluiscono a migliaia da ogni paese. Talvolta sono intere sette che si prenotano, nella speranza di una quiete indisturbabile accanto al loro guru. Nella sua creativa vecchiaia, Jünger è rimasto non meno temibile e provocatorio di quando, adolescente, fuggì di casa per arruolarsi nella Legione Straniera. Questo suo recente romanzo (1982) è un apologo beffardo e penetrante su un mondo, il nostro, che non sa bene cosa fare della morte. E tanto basta a svelare la sua inconsistenza. Come sempre, con demonica percettività, Jünger non si oppone frontalmente...
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Leyla e Majnun
«Giunse l'amore e colmò loro il calice di vino. Quand'ebbero colto la rosa profumata dell'amore, vollero assaporare il suo profumo ogni giorno: l'uno rapito dalla bellezza dell'altro, il cuore stordito e pur senza perdere i sensi, perdutamente innamorati in uno struggimento che mai si estingueva». I due amanti che così si incontrano sono Leyla e Majnun: hanno dieci anni, vanno insieme a scuola. Leyla è «una luna, una bambola, un tenero svettante cipresso»; Majnun ha «labbra di rubino che spargevano perle». Insieme, formano la coppia archetipica dell'amore estremo, della passione sino alla follia, che traversa gloriosamente la storia dell'Oriente islamico nell'immaginazione di tutti, dotti e incolti, un po' come da noi la storia di Romeo e Giulietta. Come nel loro caso, l'amore di Leyla e Majnun è avversato dal mondo, che lo vuole distruggere con ogni mezzo. Ma non ci riuscirà, perché «amore è quello che non ha fine». Così la separazione e l'assenza si trasformano in possenti catapulte della passione. Majnun, il «Folle d'amore», vaga giorno e notte cantando versi, le spine del deserto lacerano i lembi di lino e seta delle sue vesti, ma l'occhio della sua mente è fisso sempre...
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Come un talismano. Libro di traduzioni
Per vari decenni, Guido Ceronetti ha incontrato testi che gli si imponevano come accompagnatori silenziosi. Erano parole scritte in greco, in ebraico, in spagnolo, in arabo, in tedesco, in latino, in inglese, in francese. E, nella loro lunga permanenza, quasi di squatters della mente, quei testi via via esigevano di essere detti anche in italiano, e in versi (anche se non tutti, in origine, erano in versi). Quella compagnia si rivelò, nel tempo, a Ceronetti, e vorrebbe ugualmente rivelarsi a ogni lettore di questo libro, come una potente medicina. Remedium vitae, più che remedium amoris, riesce a essere, talvolta, la parola poetica. E Ceronetti, cultore di ogni medicina paradossale, si è avvinto a questo significato. Così è nato questo libro, terribilmente personale e terribilmente anonimo, e insieme composto di molti nomi. Fra questi: Eraclito, Giovanni Evangelista, Nostradamus, Blake, Saffo, Schopenhauer, Virgilio, Hallâj, Villon, Mani, Kavafis, Spinoza, Machado, Artaud, Melville, Hardy, Emily Brontë, Hernández, Nietzsche, Verlaine, Trakl, Montesquieu, Lucrezio, Baudelaire, Zola, Céline. Questi ultimi due nomi potranno, ancor più di altri, sorprendere, perché appartengono a due maestri della prosa, e oltre tutto di una prosa che ha molta difficoltà a passare in quella italiana....
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La ricerca di Iside. Saggio sulla leggenda di un mito
Sin dai tempi di Erodoto, lEgitto ha esercitato una singolare fascinazione sullOccidente. In confronto agli Egiziani, i Greci si sentivano «giovani» e nella sapienza egizia vedevano un antico e ben custodito tesoro. Da allora a oggi, si può dire che tale fascinazione non sia mai cessata, assumendo le più varie forme: lEgitto ispira il Rinascimento ermetico e i progetti rinnovatori di Giordano Bruno così come, secoli più tardi, ispirerà la moda dei mobili Impero o i camini di Piranesi. Chiunque si accingesse a una ricerca delle origini approdava allEgitto. E unimmensa attrazione esercitava la scrittura geroglifica, in cui molti riconoscevano una forma di comunicazione non discorsiva, superiore a quella della scrittura alfabetica, più adatta di questa a trasmettere i segreti celati sotto il velo di Iside. Il mito della dea sembra così presiedere, in tutte le epoche, alle speculazioni più ardite, compositi grovigli dove lerudizione e la fantasticheria spesso si intrecciano inestricabilmente. Occorreva allora il maestro delle anamorfosi, degli specchi e delle aberrazioni Jurgis Baltruaitis per ricostruire alcuni dei passaggi più oscuri e sorprendenti di quel sinuoso percorso che Iside ha compiuto nellimmaginazione occidentale, percorso che si iscrive a pieno diritto nella storia...
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Sulle tracce della gnosi. La gnosi e il tempo-Sul Vangelo secondo Tommaso
Per vari decenni, Henri-Charles Puech è andato pubblicando indagini preziose sulla Gnosi. Ed erano decenni di grandi sommovimenti in quegli studi, anche per le scoperte che venivano fatte: da quella dei documenti manichei del Fayyū'm nel 1930 a quella della vasta collezione di testi gnostici rinvenuti a Nag Hammadi nel 1946. Si può dire perciò che mai come in questi ultimi anni l'immagine della Gnosi si è trasformata e precisata. Di tutto questo, Puech è stato testimone e attore: e i suoi studi sulla Gnosi, qui raccolti, sono davvero la summa di una ricerca rigorosa, almeno in tre sensi che raramente si incontrano congiunti: filologico, storico e metafisico (o «fenomenologico», come qui lo definisce, con discrezione, Puech stesso). La Gnosi, in quanto dottrina di una salvezza attraverso la conoscenza, è un modo di orientarsi, religioso e speculativo, di cui non conosciamo l'origine e di cui non si è vista la fine. Ma possiamo ritrovarne le tracce ovunque riconosciamo l'«atteggiamento gnostico: un atteggiamento non semplicemente psicologico o puramente intellettuale, ma totale, “esistenziale”, che coinvolge la vita, il comportamento, il destino, l'essere stesso dell'uomo nella sua interezza». Se si vuole ricondurre la Gnosi al suo...
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La conoscenza di sé. Scritti e lettere (1939-41)
Questo volume riunisce scritti di Daumal compresi fra l'estate del 1939 e l'autunno 1941. Poco più che trentenne, lo scrittore ha qui raggiunto la sua piena maturità. Da una parte continua a elaborarsi la sua opera letteraria, dall'altra la conoscenza approfondita del sanscrito lo arricchisce di un tesoro che egli vuole anche trasmettere ad altri: e rimane insuperata la trasparenza con cui Daumal ha saputo attuare questa trasmissione, come provano in questo volume certi suoi saggi quali Per avvicinare l'arte poetica indù o certe sue traduzioni, dalle Upanisad o dal Panca-tantra. È a questo punto della sua vita che si situa un «cambiamento di programma», con il manifestarsi della malattia che lo avrebbe portato alla morte nel 1944. Si avverte, in tutto ciò che Daumal ha scritto in questo periodo, il senso di un'urgenza che gli impedisce di stornare lo sguardo dall'essenziale. D'ora in poi tutti i testi di Daumal, che si muovevano su direttrici apparentemente disparate, e in genere tutto ciò che scrive - comprese le lettere, rivelatrici, anch'esse qui raccolte - sembra convergere verso un centro invisibile: la conoscenza di sé, intesa nel senso della antica tradizione indù, per la quale...