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Manoscritto trovato a Saragozza
Destinata a diventare uno dei classici della letteratura polacca, quest'opera scritta in francese all'inizio del 1800, ha avuto peripezie tra le più singolari che la storia della letteratura ricordi. Si deve al noto critico e scrittore Roger Caillois di averla riscoperta per il lettore occidentale pubblicando in Francia, nel 1958, la parte del testo originale arrivata fino a noi, e facendola precedere da una prefazione che racconta la complicata storia del libro: una storia di manoscritti smarriti, di pubblicazioni parziali a Pietroburgo e a Parigi, di plagi successivi (in cui troviamo implicati anche alcuni nomi illustri, come quelli di Charles Nodier e di Washington Irving) che mettono capo a un piccolo scandalo tra letterati e a un processo. Del testo integrale, andato smarrito, esiste solo, da oltre un secolo, una traduzione polacca, non sappiamo quanto fedele. Jan Potocki, l'autore di questo libro, è un nobile polacco, appartenente all'alta società cosmopolita della fine del Settecento, di casa in tutte le capitali d'Europa, viaggiatore curioso e attento che soggiorna a lungo nel Marocco e si spinge persino, al seguito di un'ambasceria russa, ai confini tra la Mongolia e la Cina. Uomo politico illuminato, legato ad...
Il segreto del Teatro Nô
Zeami Motokiyo (1363-1445), figlio del capostipite della più celebre tra le scuole di attori di no oggi esistenti è stato definito «lo Shakespeare giapponese» in quanto attore lui stesso e autore di quasi tutto il repertorio no. Egli ha lasciato numerosi trattati su quest'arte, che è la forma più nobile e raffinata del teatro orientale, e se, a stretto rigore, non può esserne considerato l'iniziatore, è però colui che ne ha fissato i canoni fondamentali. Scritti a uso e insegnamento esclusivo dei discendenti della sua famiglia, accompagnati dalla consegna formale di preservarli come «segreti», questi trattati, che costituiscono il nucleo essenziale del libro che presentiamo, restarono effettivamente sepolti in Giappone per cinque secoli, e cominciarono a essere riscoperti e studiati solo nel primo decennio del Novecento. Per una singolare coincidenza, ciò avvenne appunto negli anni in cui in Europa nasceva una viva curiosità per il teatro no, sia grazie al movimento verso un linguaggio scenico per simboli che prese l'avvio con Gordon Craig, sia, ancor più, per merito di Yeats che volle utilizzare le tecniche del no nei suoi stessi drammi e che offrì a Pound l'occasione di presentare, tradotti da lui e...
Lezioni e conversazioni sull'etica, l'estetica, la psicologia e la credenza religiosa
Nei testi raccolti in questo volume, tutti appartenenti al periodo compreso fra la pubblicazione del Tractatus (1921) e la composizione delle Philosophische Untersuchungen (1941-1949), Wittgenstein tratta alcuni temi fondamentali della ricerca filosofica: la natura del «bello» e delle proposizioni di fede, l'interpretazione psicologica, soprattutto in riferimento a Freud, e i fondamenti dell'etica, temi cioè che, pur presenti nell'unica opera da lui pubblicata e negli scritti postumi finora editi, non vi hanno né rilievo né trattazione particolare. Questi scritti, quindi, sia nella forma definitiva data da Wittgenstein stesso, come nella Conferenza sull'etica, sia nella forma di appunti, presi da Friedrich Waismann durante e dopo conversazioni con Wittgenstein e Moritz Schlick, e da allievi durante lezioni tenute a Cambridge nel 1938, costituiscono un'aggiunta e un chiarimento indispensabili alla comprensione di una personalità filosofica così singolare e determinante per la nostra cultura. In particolare gli appunti, proprio per la forma diretta della conversazione filosofica, conservata nella trascrizione non elaborata dagli allievi, suggeriscono il modo di procedere della sua intelligenza creativa e il rigore non soltanto intellettuale della ricerca, poiché, come dice Erich Heller: «Per Wittgenstein, la filosofia non era una professione; era una passione divorante; e...
L' anima della formica bianca
Le termiti - o «formiche bianche», come anche furono denominate - hanno attirato sempre, fin da quando Linneo, nel 1748, le classificò, un interesse violento e di specie affatto particolare: questi esseri arcaici e ciechi, provvisti di un imponente potere costruttivo e distruttivo, ordinati rigidamente nella loro esistenza sotterranea, guidati da un centro immobile e nascosto, come il regno cinese era retto dall'Immobile Figlio del Cielo, suscitano naturalmente una serie di interrogativi, proiezioni e provocazioni. La ricerca sulle termiti è stata perciò, sempre, inestricabilmente connessa con temi generalissimi che coinvolgono anche l'uomo - basti pensare come il vocabolo «termitaio» sia venuto a designare l'immagine minacciosa e ipnotica di una società perfettamente organizzata, inferno o paradiso. Una tappa importante in questi studi è stata segnata dal libro che qui presentiamo. Il suo autore, Eugène N. Marais, era un ricercatore affatto singolare: uomo solitario, schivo, vissuto quasi sempre nel Sud Africa, dove era nato, egli condusse per anni e anni, senza stretti legami con la scienza ufficiale, i suoi studi sulla vita animale, arrivando perfino a vivere per tre anni in mezzo a un branco di babbuini. Così egli applicava già, a suo modo, il...
Ecce homo. Come si diventa ciò che si è
Ecce homo è l'ultima opera compiuta di Nietzsche prima della follia, scritta, nelle sue grandi linee, in tre settimane di immensa esaltazione dell'autunno 1888, a Torino. La pubblicazione di questo testo fu ritardata dalla sorella fino al 1908 - e non è difficile intuirne la ragione: in poche pagine qui Nietzsche pone le esigenze estreme del suo pensiero, esaspera i termini dell'accusa e dell'affermazione; fra l'altro è la Germania, e soprattutto lo spirito dell'Impero germanico, a essere qui vittima di un attacco che per virulenza e acutezza non è stato finora superato. Ma dietro questa drasticità della formulazione, dietro il grandioso gesto teatrale che regge il tutto, molte cose sono da scoprire in questo testo misterioso, dove Nietzsche stesso vuole configurare il proprio destino, dove anche la sua arte labirintica dà una prova suprema - e non meraviglia che molti si siano spersi nei meandri di queste poche pagine. Di fatto, Ecce homo è stato sempre uno dei testi più dibattuti di Nietzsche, di esso sono state proposte le definizioni più discordanti: proclama cosmico? documento psicopatologico? autoritratto? pamphlet antitedesco? Certo è che quest'opera è un unicum e con essa deve confrontarsi alla fine...
Mitobiografia
Durante i trent'anni in cui Ernst Bernhard (1896-1965) praticò la psicoterapia junghiana a Roma si creò intorno alla sua figura una grande fama sotterranea, legata essenzialmente al rapporto - non solo medico, ma di vera guida - che egli aveva con i suoi molti e diversissimi pazienti e, negli ultimi anni, con i suoi allievi. Bernhard fu per altro sempre restio a pubblicare i suoi scritti e fino a oggi solo poche sue pagine sono state stampate. Eppure era evidente che in lui continuamente si sviluppava un pensiero vasto, una visione audace, che spesso si spingeva oltre le stesse formulazioni estreme di Jung e l'àmbito della psicoanalisi in genere. In quest'uomo enormemente complesso agivano e si mescolavano componenti opposte: l'ebraismo, piuttosto di stampo chassidico, che lo spinse per tutta la sua vita a cercare per sé, e ad affermare come compito attuale della coscienza, l'innesto della sapienza religiosa ebraica su un nuovo ceppo; l'eredità germanica, che lo riconduceva alla tradizione dei filosofi romantici della natura, una cui ultima propaggine può essere riconosciuta anche in Jung; infine il rapporto con la 'madre mediterranea', l'apertura al mondo delle immagini, che dava a Bernhard una capacità...
Filosofia dell'espressione
La Filosofia dell'espressione di Giorgio Colli è un saggio teoretico che si azzarda a ripensare ex novo alcuni temi essenziali della metafisica, situandosi in posizione di evidente rottura e incompatibilità con le correnti dominanti della filosofia contemporanea. Qui la prospettiva privilegiata è quella della conoscenza, ma non certo in rapporto alle preoccupazioni epistemologiche dell'età moderna: piuttosto siamo di fronte a un tentativo di risalire all'indietro il corso involutivo della storia, con gesto di sovrana inattualità, per tornare ai termini del primo pensiero greco. La parola-guida espressione viene qui intesa in senso metafisico, come 'la sostanza del mondo', che rimanda ad altro, senza che questo altro possa essere nominato. Nel suo aspetto perennemente duplice di giuoco e di violenza il mondo si articola davanti a noi, sullo schermo illusionistico della rappresentazione, in serie espressive variamente complesse, che si allontanano sempre più dall'immediato e sempre più cercano di recuperarlo. A seguire l'intrico di questi rapporti in cui la ragione costruisce il mondo, trasformandosi, non verrà certo di pensare alla ragione strumentalizzata del pensiero moderno, ma piuttosto al senso greco del logos, quale traspare nelle enigmatiche formule dei Presocratici o ancora nella immensa summa aristotelica, nel...
La pentola dell'oro
James Joyce sosteneva di formare con James Stephens una coppia di gemelli celesti «nati alla stessa ora dello stesso giorno dello stesso anno nella stessa città». E Stephens aggiungeva: «Ma in due letti diversi, e questo fu il solo neo nei nostri rapporti». Tanto forte doveva essere questa convinzione in Joyce che, in una lettera scritta mentre disperava di poter mai finire Finnegans Wake, egli indicava in James Stephens l'unico scrittore che eventualmente avrebbe potuto portare a termine il suo lavoro. E ciò non solo perché questi disponeva in maniera prestigiosa di tutta la tastiera mitica e fantastica dell'Irlanda, ma perché Stephens era anche lui dotato di una formidabile abilità stilistica, di un orecchio rigoroso per il ritmo. Solo che la forma dei suoi scritti è quanto di più diverso dall'ultimo Joyce; una semplicità apparente, una sviante elementarità del linguaggio e dei temi si ritrovano in tutte le sue opere - poesie, racconti e memorabili conversazioni alla radio - e così anche nel suo capolavoro La pentola dell'oro (1912). Questo libro, che fin dal suo apparire si guadagnò dei fanatici ammiratori, è pressoché indefinibile, ma di questa sua natura elusiva e polivalente il...
Andrea o I ricongiunti
Andrea o I ricongiunti è uno dei grandi romanzi del nostro secolo. Come L'uomo senza qualità di Musil, esso nasce nel clima della rovina asburgica, nel crollo di quella tradizione aristocratica dell'Austria che trovò in Hofmannsthal la sua espressione suprema. Iniziata nel 1912, quest'opera avrebbe accompagnato Hofmannsthal fino alla sua morte, avvenuta nel 1929, rimanendo incompiuta e insieme perfetta, chiusa. Nelle sue pagine sembrano tessersi tutti i fili di quella tela misteriosa che fu Hofmannsthal stesso: nitida, rilucente, intatta superficie nella prima parte, distesamente narrata; tenebra geroglifica nella seconda parte, formata dai meravigliosi frammenti dove Hofmannsthal ha svelato le ramificazioni senza fine del pensiero che sottende la sua narrazione. Hofmannsthal definì l'Andrea come luogo geometrico dei destini, e di fatto egli è l'unico fra i grandi narratori moderni ad aver riconquistato la nozione del destino in tutta la sua arcaica vastità. Ma l'accesso a questa cifra nascosta non è certo immediato: guidandoci nel paese delle maschere, Hofmannsthal ha scelto accuratamente la sua, e così ha dato al suo romanzo l'ingannevole aspetto di un nuovo Bildungsroman. Il giovane Andrea muove dalla sua Vienna verso la Venezia settecentesca, perché, là, «la gente è quasi sempre...
Macunaima. L'eroe senza nessun carattere
Nella foresta vergine brasiliana, in un mondo ancora prodigioso, dove uomini e animali si parlano e si trasformano gli uni negli altri, dove i grandi morti diventano astri e costellazioni, nasce Macunaíma, «l'eroe senza nessun carattere», nuova incarnazione del trickster, essere dai grandi poteri e dai grandi vizi, pigro, lussurioso, candido e violento come la sua terra. Ancora bambino, Macunaíma si dedica a formidabili imprese erotiche, combatte, inganna, si trasforma, gioca e si spassa fra i suoi compagni mitologici. Ma alla morte del suo grande amore, Ci, la regina delle foreste vergini, Macunaíma sceglierà di andare per il mondo. E così lo vediamo comparire a San Paolo e Rio de Janeiro, scontrarsi con l'altra magia, quella della civiltà moderna, e nelle alterne vicende di questa lotta sarà il tema centrale del libro. Dopo estenuanti avventure, dove de Andrade fa trasparire una acuta satira del Brasile contemporaneo, Macunaíma vince, ma al ritorno nella foresta, la trova spopolata e là, con davanti agli occhi la triste visione di una civiltà che scompare, morirà. Anche lui sarà trasformato in una stella e continuerà la sua vita nel cielo. Giunti alla fine, le avventure di Macunaíma ci...
Memorie dalla Torre Blu
Imprigionata per ventidue anni, dal 1663 al 1685, nella Torre Blu del Castello Reale di Copenaghen - sotto l'accusa di aver congiurato contro il re insieme a suo marito, il nobile Corfitz - Leonora Christina, figlia morganatica del re Cristiano IV di Danimarca, annotò clandestinamente le sue vicende, durante la prigionia, per istruirne i suoi figli. Ne è risultata una delle opere più enigmatiche e scabre di tutta la memorialistica - modernissima per l'asciuttezza del tono, per la prontezza nel cogliere il particolare, per l'invincibile ambiguità psicologica che la percorre. Scoperte e pubblicate soltanto nel 1869, ammirate da Rilke, Jacobsen e Andersen e oggi considerate un grande classico della letteratura danese, le Memorie di Leonora Christina vengono qui presentate per la prima volta in Italia. Non già ricordando nella tranquillità vicende passate, dietro lo schermo del tempo, ma ancora costretta in mezzo agli spettri viventi di quel passato, al centro di un groviglio di odii che la obbligava a subire le macabre vessazioni della Torre Blu - dove questa donna regale conversava con carcerieri e infimi delinquenti, dove continuamente aguzzava le armi per difendersi da una turbinosa società di visitatori, inquisitori, ancelle e...
Lo scimmiotto
Uno dei quattro grandi romanzi classici cinesi, Lo Scimmiotto fu scritto dal letterato Wu Ch'êng-ên nel secolo sedicesimo, ma il materiale della storia è un immenso ciclo di leggende che si era accumulato per centinaia di anni intorno al «viaggio verso l'Occidente» - cioè verso l'India - del monaco Hsüan Tsang, poi detto Tripitaka, per raccogliervi scritture sacre buddiste e introdurle in Cina. La vicenda comincia con la nascita di una scimmia da un uovo di pietra: è lo Scimmiotto, che presto sarà eletto Re delle Scimmie. Essere prodigioso e beffardo, dalla inesauribile vitalità, Scimmiotto adopera astuzie e artifici magici per diventare immortale e, poi, per portare lo scompiglio e la guerra nel cosmo, subissando i celesti con le sue sempre eccessive trovate - ed è una delizia seguire il turbamento provocato nei cieli cinesi, affollatissimi di esseri divini, da questo indiavolato trickster. Infine, nella seconda parte, Scimmiotto, assieme a due altri compagni - Porcellino e Sabbioso, che simboleggiano due potenze dell'essere umano - si riscatterà dalle sue malefatte aiutando Tripitaka nel suo arduo viaggio. Tutto il libro è un moto inarrestabile di fatti e sorprese, un grande romanzo di avventure che ne...
Lulù-Lo spirito della terra-Il vaso di Pandora
La serata della prima rappresentazione del Vaso di Pandora a Vienna, il 29 maggio 1905, come la prima parigina dell'Ubu re di Jarry, è uno degli avvenimenti che inaugurano il teatro moderno. Quella sera, davanti a un pubblico di invitati filtrato con ogni cautela dall'autorità di polizia e dagli organizzatori, dopo una lunga presentazione di Karl Kraus, la scena si apriva su una vicenda sconvolgente, che allora apparteneva allo scandalo e oggi alla mitologia: la storia della fine di Lulu, archetipo violento della femminilità. Quella sera Lulu era Tilly Newes, che con la sua interpretazione conquistò Wedekind e ne divenne poi la moglie e l'attrice preferita; Karl Kraus stesso aveva la parte di Kungu Poti, principe africano; il brillante saggista viennese Egon Friedell era un commissario di polizia e, infine, Wedekind aveva la parte che corona questa discesa negli abissi, quella di Jack lo Sventratore. Scrittore totalmente d'istinto, ma dagli istinti precisi, Wedekind irrompe con malagrazia nella storia del teatro, mostrando ciò che, allora, il teatro aveva quasi la funzione di occultare, e che indubbiamente non si rivelava in certi titanici, ma quanto timidi e prudes, campioni del moderno quali Ibsen. La carica...
Il sacro amplesso
Abramo, che intrattiene con l'Essere da lui scoperto (il Signore) curiosi e complessi rapporti, apprende da Lui che sua moglie Sara gli partorirà un figlio, pegno del patto divino. La notizia non sarebbe così grave se Sara non avesse novant'anni e Abramo cento, e se i loro rapporti coniugali non fossero ormai limitati all'estatica adorazione che il marito tributa alla moglie, la «principessa» nata nel culto degli idoli, «fiore meraviglioso che invece di appassire sembra abbandonarsi a un lento processo di autoimbalsamazione». La relazione fra Sara e Abramo è un groviglio psicologico ed erotico che Brelich dipana con virtuosistica destrezza: un legame di masochismo, inganno e rovente passione, nel quale si può leggere in trasparenza anche quello fra la nuova religione ebraica e il politeismo semitico da cui essa si stacca. I dubbi, i tormenti, le misteriose resistenze che hanno origine da questa situazione non impediscono però, alla fine, il compiersi del miracolo: il sacro amplesso fecondo e la nascita di Isacco («Riso»). Sullo sfondo della vicenda riconosciamo la storia dei primordi del popolo ebraico, dall'abbandono di Ur dei Caldei all'arrivo nel paese di Canaan, dal soggiorno in Egitto alla distruzione di Sodoma...
Vite immaginarie
«È hashish... dà fuoco all'immaginazione», così disse il poeta Albert Samain quando lesse le Vite immaginarie di Marcel Schwob. Il fuoco di questo libro brucia ancora: oggi, se tanti lettori scoprono in Borges gli incanti più sottili e vertiginosi del fantastico e di una certa occulta matematica della narrazione, riconosceranno in Schwob un maestro e un modello di quella letteratura. Erudito esploratore della biblioteca di Babele, autore precocissimo di fondamentali ricerche sulle origini dell'argot, appassionato cultore di Villon, che ricondusse al suo vero luogo, fra i malfattori della banda dei Coquillards, Marcel Schwob (1867-1905) inventò un nuovo genere di narrativa d'avventura, che non cerca un contatto diretto con la realtà, ma passa per le vie traverse della filologia e della mistificazione, sprofonda nella «antichità eliogabalesca» - così disse E. de Goncourt - come in una riserva di sogni, per rendere alla vita bruta quella carica allucinatoria che essa ha in origine. A lui, giovane che fu sempre vecchissimo, fecero omaggio Jarry e Valéry, dedicandogli le loro prime opere; e Oscar Wilde, dedicandogli The Sphinx. Nella Parigi dei martedì di Mallarmé e dei gloriosi inizi del «Mercure de France», anni in cui fu disegnata...
La via di un pellegrino. Racconti sinceri di un pellegrino al suo padre spirituale
L'Anonimo russo che racconta le sue vicende in questo libro è uno strannik - un contadino che, fisicamente inadatto alla vita dei campi e spinto da un forte impulso religioso, abbandona il suo paese e si dà a una perpetua vita errante. Centro di essa sarà la sua scoperta della preghiera esicastica. Solitario per le strade della Russia, accompagnato soltanto da un libro che determinerà tutta la sua esistenza, con un tozzo di pane secco e il suo prezioso salvacondotto, l'Anonimo russo ritrova, brancolando, testardo nel suo desiderio, una via mistica che ha una tradizione immensa e antica, vero segreto della Chiesa d'Oriente. Si tratta appunto della preghiera esicastica, cioè di una certa pratica della 'preghiera interiore ininterrotta' illustrata nel libro che il pellegrino porta con sé, la Filocalia, vasta raccolta di testi mistici che va dai primi Padri del Deserto ad alcuni grandi teologi bizantini. Tale preghiera, fondata su una sottile teoria della respirazione e della «custodia del cuore», è l'unica pratica occidentale che si possa confrontare con lo yoga indù - un Oriente occultato, che il mondo slavo ha per secoli nutrito in sé. Senza ausili di cultura e senza il...
Il libro di Giobbe
Tutti sanno che Giobbe, «uomo di perfetta purità», fu colpito da sventure e, infine, ulcerato nel corpo dal Male, circondato da tre amici, si rivolse al Signore per chiedere ragione delle sue sofferenze. «Iob dice che i buoni non vivono e che Dio li fa ingiustamente morire. Gli amici di Iob dicono che i cattivi non vivono e che Dio li fa giustamente morire». Lo scandaloso processo che Giobbe, il giusto, osa intentare al Signore è una immensa pietra d'inciampo che è fatale incontrare e che ogni lettura obbliga ad aggirare, con fatica e meraviglia. Guido Ceronetti, con la sua versione e il suo commento, ha cercato, nell'oscurità e nell'enigma, di offrire in tutta la loro forza oscurità e enigmi, perché questo testo, che nessuna ragione potrà mai accettare, appaia nuovamente inaccettabile, arricchito dalla scomparsa di quelle tante mitigazioni esegetiche nelle quali secoli di devozione e di empietà lo hanno avvolto. Testo principe sul male, Il Libro di Giobbe ci rassicura che il male non è quella burocratica 'privazione del bene' a cui teologi grandissimi lo hanno voluto ridurre, ma inarrestabile ruota del mondo; che vera offesa recano innanzitutto gli zelanti, in quanto...
Una visione
«Il pomeriggio del 24 ottobre 1917, quattro giorni dopo che mi ero sposato, rimasi stupito nel vedere mia moglie che tentava la scrittura automatica. Ciò che veniva fuori in frasi staccate, in una grafia quasi illeggibile, era così esaltante, a volte così profondo, che la convinsi a dedicare tutti i giorni una o due ore all'ignoto scrittore, e dopo una mezza dozzina di queste ore mi offersi di passare il resto della mia vita a spiegare e a mettere insieme quelle frasi sparse. “No,” fu la risposta “noi siamo venuti a darti metafore per la poesia”». È questo l'inizio della 'esperienza incredibile' del grande poeta irlandese W.B. Yeats, che culminò anni dopo nella stesura di Una visione. Al periodo della scrittura automatica seguì, a distanza di qualche mese, la comunicazione orale dei misteriosi 'istruttori', che parlavano ora attraverso la voce della donna addormentata. Yeats trascriveva ciò che udiva e interrogava incessantemente. Col tempo venne a delinearsi un sistema complesso e minuzioso, una rivelazione ermetizzante, che illuminava la cosmologia e la storia mediante diagrammi simbolici e uno schema di 'incarnazioni' corrispondenti alle ventotto fasi della luna, ruota dove si iscrive ogni esperienza umana, dall'infima...
Teatro popolare. Notte all'italiana-Storie del bosco viennese-Kasimir e Karoline-Fede speranza e carità
Non si vive di solo Brecht - e in questi ultimi anni, nei paesi di lingua tedesca, critici, lettori e pubblico hanno riscoperto con molto clamore un'altra grande figura del teatro del Novecento, la cui critica sociale non è certo meno corrosiva di quella di Brecht, e che pure da lui si differenzia in tutto, nei procedimenti, nell'educazione, nel senso della forma: Ödön von Horváth (1901-1938). Nel suo sangue si mescolavano molte delle nazioni dell'Impero, tanto che egli diceva di essere una «tipica faccenda austroungarica» - e, di fatto, Horváth può essere considerato come l'ultimo rappresentante del teatro viennese, che era sempre riuscito a essere, al tempo stesso, popolare e sottratto alle vane tentazioni del verismo. Ma Horváth si trovò davanti al paradosso di scrivere teatro popolare in un'epoca in cui il popolo era ormai diventato un'entità fantomatica - e in un periodo sinistro della storia, quando il nazismo era già una costellazione compiuta in tutti i suoi elementi e aspettava soltanto di raccogliere il potere. Horváth si accorse subito di vivere in un mondo abitato «per il novanta per cento da piccoli borghesi appena riusciti, o non ancora, a diventare tali, comunque...
Dopo Nietzsche
Giorgio Colli è stato un filosofo di radicale 'inattualità', uno dei rarissimi che abbiano avuto la capacità, eminentemente nietzscheana, di parlare al presente «con vera durezza»: in questo libro egli risolleva, in tutto il loro peso, molte delle domande che Nietzsche aveva posto, e a cui spesso aveva risposto solo per enigmi, inclusa quella sul significato dell'enigma, decisiva per avvicinarsi a qualsiasi questione filosofica e, in particolare, al modo che Nietzsche aveva di vivere il pensiero. Sono problemi che, almeno nella loro originaria e vitale immediatezza, negli ultimi cento anni ci si è preoccupati per lo più di eludere, sia non percependoli sia sottoponendoli al mortale filtraggio della 'prospettiva storica'. Per Colli, invece, il presupposto è che Nietzsche sia stato l'ultima grande figura del pensiero occidentale, e che perciò la filosofia non abbia altra scelta se non quella di porsi le stesse questioni che Nietzsche individuò e sulle quali, alla fine, il suo destino si infranse. Ciò lo costringe a una sorta di guerra su due fronti: da una parte, la ripresa e reinterpretazione di tutti i temi greci di Nietzsche (dalla sapienza misterica a Socrate, dal significato di Apollo al nesso fra...